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CALCIO AVELLINO

La lettera del maresciallo-ultrà Emilio Limone

Gentile direttore,

innanzitutto mi permetta di darle del lei. Lasciamoci per un attimo alle spalle una lunga amicizia, costellata da collaborazioni e ricordi, e mi consenta di tributare formalmente una sincera stima nei confronti un professionista il quale, in uno dei momenti più brutti della storia del calcio avellinese, ha deciso di mettersi in gioco con i propri validi collaboratori, conservando l’entusiasmo di sempre e garantendo la gratuita trasmissione in diretta delle gare esterne dei lupi, nonostante le palesi difficoltà tecniche che i campetti di questa categoria giocoforza riservano. In egual modo, giunga la stima nei confronti dei colleghi di altre testate, altrettanto professionali ed appassionati, sebbene le parole “serie D” provochino lo stesso sgradevole suono di quando, da bambini, producevamo quel brutto stridolio con il gessetto sulla lavagna.

Premesso ciò, effettivamente è un colpo al cuore respirare nuovamente quell’aria pesante, quell’odore di dilettantismo che speravamo di aver archiviato definitivamente. Eppure rispetto a nove anni fa mi sembra che l’approccio sia stato diverso, intendo in meglio. Nel 2009 abbiamo vissuto per la prima volta la traumatica esperienza del fallimento dell’U.S. Avellino, una società che nessuno avrebbe immaginato sparire così da un giorno all’altro. Il distacco da una denominazione e da un logo potrebbe apparire banale, invece fu un trauma per tanti, me compreso, che non riuscivano davvero ad identificarsi in una nuova squadra che, sì, aveva il nome della nostra città, ma non era il nostro U.S. Avellino. Quest’anno, lo shock per il ritorno in serie D è stato quantomeno ammortizzato dalla consapevolezza di vedere ancora sulle maglie biancoverdi quel logo rotondo, quel lupo dallo sguardo fiero, quelle parole “Unione Sportiva Avellino S.p.A. 1912” per cui abbiamo sofferto, gioito, pianto di gioia o di amarezza.

Questo campionato si sta mostrando per quel che è: duro, senza sconti e da combattere dal primo all’ultimo minuto di ogni partita; non è certo il blasone a spingere un pallone in rete. Anzi, so che sembrerà un’eresia, ma talvolta è proprio la sistematica rivendicazione della nostra storia a ritorcersi contro di noi. Sia chiaro: è prima di tutto un’autocritica. Mi hanno fatto riflettere le parole di una persona presente con me ad Anzio, non avellinese né tifosa biancoverde, seguite ai tanti commenti di disagio ascoltati su quegli spalti rudimentali: “Non credete di esagerare un po’ con questa storia della serie A? Sono passati trent’anni dall’ultima partita, tanti di voi qui presenti neanche l’hanno vissuta, è ora di ridimensionarsi e ragionare con umiltà”. Effettivamente è così. In Irpinia noi odierni trentenni siamo cresciuti con il mito della serie A, enfatizzato a tal punto da conoscere calciatori, date, partite chiave ed aneddoti quasi come se fosse un ricordo diretto. Anche fuori dai confini provinciali la prima nota d’orgoglio, parlando del nostro amato Avellino, ha il suono di quella frase detta e ripetuta all’infinito: “noi siamo stati dieci anni in serie A”. Quante volte mi è venuto spontaneo dirlo, nelle mie tappe di vita in giro per l’Italia? Quante volte l’interlocutore ha storto il naso, talvolta citandomi con la nostalgia del calcio che fu i vari De Somma, Juary, De Napoli, Diaz, Dirceu, ma in conclusione chiedendomi di guardare al presente e non adagiarmi sugli allori? Pensiamoci bene: da quel funesto 15 maggio 1988 (a proposito di date conosciute a memoria), quante provinciali si sono avvicendate nella massima serie, anche con discreti risultati? Tante, troppe. Paradossalmente, da due anni a questa parte, anche i tifosi di quel club campano storicamente abituato a giocare nei campetti di provincia, quei supporters per cui ogni occasione è buona per cantare “chi non salta è di Avellino”, pur provocandoci la più totale indifferenza, possono dire di aver conquistato un “blasone”. Allora armiamoci di umiltà, sosteniamo l’Avellino nonostante un cammino altalenante, non abbandoniamolo se i risultati sembrano abbatterci, perché questa è la nostra attuale realtà e dobbiamo affrontarla a viso aperto. Non mi permetto di esprimere giudizi né sulla società né su squadra e staff, lasciando a chi di competenza appunti e consigli, chiedendo esclusivamente di non deludere, ognuno nel proprio ruolo, le aspettative di un popolo affamato di risultati. Sono ancora un giornalista pubblicista ma parlo spudoratamente da tifoso, da anni lontano da Avellino ma con il lupo nel cuore e nella mente: continuiamo a riempire lo stadio “Partenio” e gli impianti sportivi che ci stanno ospitando in questo campionato, facciamolo innanzitutto per ciò che rappresentano Avellino e l’Irpinia per tutti noi. Caro direttore, quando non mi è possibile andare in trasferta, guardando in streaming le sue telecronache, il petto si gonfia e sale l’emozione solo vedendo o ascoltando le centinaia di tifosi biancoverdi che sostengono la squadra, dall’inizio alla fine, a prescindere dal risultato e dal nome sconosciuto della società di casa. Ecco, la Curva Sud è indubbiamente da serie A, con o senza quel fardello chiamato passato. Il mio augurio è che il tifo organizzato, sulla cui costante presenza nessuno potrà mai avanzare alcun dubbio, sia sempre accompagnato dagli appassionati irpini che giungono da ogni dove, talvolta anche occasionalmente per vicinanza chilometrica o opportunità. Non perdiamoci d’animo, facciamo la nostra parte. Sperando che chi di dovere faccia la sua, restituendo a questa piazza la dignità perduta. Direttore, mi dica pure che sono un matto, un visionario, ma io alla serie A credo davvero e non certamente per rimpiangere ancora quegli anni Ottanta che da storia stanno divenendo preistoria del calcio, ma perché ripartendo dalla polvere, a testa bassa e denti stretti, con pazienza e sacrificio, si può sognare in grande. Lo affermo ora che siamo in D e ci tenevo ad esternarlo. La strada è ancora lunga, non dividiamoci. Siamo una cosa sola. Siamo l’Irpinia. Siamo l’Avellino.

Emilio Limone

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